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Don Antonio: in cammino con un calice e un pallone

20/06/2022

Ho trascorso la mia vita camminando con un calice e un pallone”.
Parole e musica sono di Don Antonio Colombo, sacerdote diocesano originario di Casatenovo con una vocazione missionaria appassionata e determinata, sulla cui strada ha camminato dal lontano 1974 sino ad oggi, con due punti saldi nel suo apostolato: la parola di Dio, prima di tutto, e lo sport. Lo sport come strumento di relazione, lo sport come strumento di salvezza non solo da contesti di fragilità e povertà, ma a volte come vera e propria ancora di fuga dalla morte certa, dalla strada, dalla sparizione.

La vita di Don Antonio sembrava inizialmente quella di un normale e appassionato prete diocesano, innamorato dello sport ma uscito dal seminario in un'epoca in cui i seminaristi non potevano giocare a calcio (nda: oggi essite addirittura un campionato), ordinato a 23 anni Prete e per i dieci successivi incaricato nella Parrocchia di Cerro Maggiore: “Poi andai in Africa per un matrimonio -racconta- e lì fui colto probabilmente da quello che tutti chiamano Mal d’Africa, quell’urgenza di voler ritornare, l’idea di sentirsi destinato a sostenere e accompagnare persone in condizioni di vita fragili, precarie, quasi senza speranza in quel continente così martoriato. In quel periodo l’allora Cardinale inviava spesso dei preti diocesani a seguire missioni estere, e io inoltrai subito la mia candidatura”.

Partito per l’Inghilterra per imparare l’inglese, nel 1974 Don Antonio salì per la prima volta su un aereo che lo portava in missione, destinazione Zambia. “In quel primo incarico dovevo creare una missione da zero, imparare il Bantu, relazionarmi con la gente del posto che per la prima volta si trovava davanti ad un prete bianco -racconta il Don- Lo sport servì da subito per arrivare dove nemmeno l’inglese o il Bantu bastavano”. In quei luoghi così lontani dalla sua Brianza e da Cerro Maggiore, Don Antonio si rimboccò le maniche e iniziò a radunare gli adulti attorno ad una piccola squadra di calcio.  Dai luoghi delle sue origini e dei suoi inizi però, arrivava costante il sostegno delle comunità: “Mi spedivano divise e materiale per questa squadretta e queste persone che non avevano nemmeno scarpe, figuriamoci quelle per giocare, erano gli anni “70, non c’era nulla, meno ancora di ciò che c’è ora” prosegue Colombo. Gli anni in Zambia trascorsero così tra l’evangelizzazione e la crescita di una comunità attorno allo sport, al calcio, fino a raggiungere un accordo con la Lega Calcio locale per un piccolo campionato, e a veder debuttare in nazionale uno dei suoi ragazzi.

Una gioia segnata troppo presto da una tragedia. Nel 1980 l’aereo che trasportava la nazionale dei calciatori zambesi precipitò. Tra gli oggetti appartenenti alle salme che vennero recuperato, c’era anche un paio di scarpe da calcio… Inconfondibili per Don Antonio. Era uno dei suoi ragazzi quello, le scarpe gliele aveva regalate lui. Era l’inizio di un momento complesso per l’Africa, con la popolazione dimezzata, spazzata via dall’ AIDS e dalla malaria. In quel momento così tormentato Don Antonio fu richiamato in Italia per lo scadere dei 12 anni di missione previsti, lasciando in Zambia un pezzo di cuore ma anche una missione, la comunità della Parrocchia San Salvatore da lui fondata, un movimento sportivo, la squadra di calcio “A Roma Star” e un torneo che la parrocchia gli ha intitolato.

Per lui in Italia ci furono incarichi a Cologno Monzese ad inizio anni “90 e soprattutto a Greco, dove fu uno dei fautori della nascita della Polisportiva Greco San Martino, tra le società storiche del CSI oggi. Era la fine degli anni “90 e il prete diocesano con anni di missione alle spalle in cui lo sport aveva salvato vite, rispondeva in un modo solo a chi non riusciva a comprendere la valenza dello sport nelle comunità cristiane e negli oratori: Se lo sport è una palla al piede sapete che vi dico? Che con la palla al piede si corre verso la porta, si fa goal, e si vince la partita. La grande disponibilità di impianti e di realtà sportive in Italia suscitava già allora grande sorpresa negli occhi di un missionario che aveva visto bimbi scalzi giocare su campi sconnessi e sterrati dell’Africa.

Oggi, mentre ricorda quegli anni e racconta la sua storia, Don Antonio si guarda attorno nel centro sportivo di Cornaredo dove lo incontriamo con CSI per il Mondo, e la sua commozione nel vedere il grande centro con i campi a 11, a 7, i palazzetti, i campetti, le tensostrutture, è qualcosa che ha rari termini di paragone, forse solo certi bambini che si sorprendono davanti a cose inaspettate restano così, quasi pietrificati e con il passo incerto sull’avanzare davanti a ciò che vedono. “Questo luogo è il paradiso per i miei bambini” ha commentato più volte con gli occhi lucidi e un sorriso pieno d’amore. Ma attenzione a non scambiare questa dolcezza del sorriso in debolezza, perché Don Antonio è un prete missionario determinato, che non lascia nulla di intentato per la sua gente.

E “la sua gente” dal 2007 è quella di Huacho, una comunità peruviana a pochi chilometri dal mare dove la gente si raduna più che altro attorno alla grande Cattedrale per le celebrazioni religiose legate al culto dei santi. Niente oratorio. “Quando ho chiesto se ci fosse un luogo simile ad un oratorio, sono stato portato davanti ad una spianata di 4000 metri quadrati, e lì mi hanno detto: vuoi l’oratorio? Costruiscilo. Cosa credete abbia fatto Don Antonio? Ha iniziato a costruire, e ha iniziato a farlo partendo dai campi sportivi, dagli spazi per i giovani, per i ragazzini, dalla scuola calcio che toglie i ragazzi dalla strada e dalla violenza dando un riferimento ai tantissimi orfani del posto, alcuni dei quali sono riusciti a riscattarsi e a passare da una vita di privazioni alla carriera di calciatore professionista. “I latini hanno un concetto di fede diverso dal nostro, non esiste la ritualità domenicale della partecipazione alla Messa ma esiste un fortissimo culto dei Santi con feste partecipate come raramente ho visto in vita mia, ma non si riesce a costruire poi un cammino con continuità. Lo sport invece fa questo, lega la gente ad un progetto, al contempo alla chiesa, offre opportunità, salva, aggrega, crea comunità, da speranza. Anche a Huacho esiste la Coppa Colombo che i detenuti del carcere locale hanno deciso di dedicare al prete brianzolo dopo averlo conosciuto durante le feste natalizie; un’occasione durante la quale il Don non perse l’occasione di far arrivare dei palloni ai detenuti consentendo loro di trovare nello sport un modo di sfogare positivamente la loro fisicità, abbandonando la violenza.

Così come in Africa la popolazione fu gettata nella tragedia dall’AIDS, così il Perù resta uno degli stati al mondo più toccati e distrutti dalle conseguenze del Covid-19, tra quelli con il tasso di mortalità più alto in relazione al numero di abitanti. “In Perù si diceva di voler scongiurare le -morti Bergamo- come le chiamavamo all’epoca dopo aver visto le immagini dell’Italia -ha spiegato Don Antonio- Ma purtroppo la situazione di povertà delle periferie, la mancanza di strutture ospedaliere attrezzate, di acqua potabile, la scarsità di ossigeno, ha costretto la gente più povera a dover uscire comunque di casa per trovare cibo e acqua che non aveva. Le morti sono aumentate, nessuno riusciva a curarsi, in Amazzonia le persone utilizzavano medicamenti naturali e il risultato fu un dilagare della pandemia a livelli incontenibili e un numero di morti insostenibile”. Stavolta Don Colombo non se ne è andato però. Non è rientrato in Italia, ha affrontato una situazione tragica, è stato ricoverato in ospedale diverso tempo per complicazioni al cuore e diverse patologie da curare, ma non se ne è andato: “E ritorno” ci dice felice dall’alto dei suoi 80 anni passati.

Il suo aereo, infatti, decollerà il 21 giugno per tornare in Sudamerica, dopo qualche mese trascorso in Italia per riabbracciare gli amici di sempre, le sorelle (tra cui una, Suor Dalmazia, Croce Italiana per i suoi 50 anni di Missione in Mozambico), le comunità che lo hanno accolto nei primi anni da Prete, e per chiacchierare un po’ anche con noi di CSI per il Mondo. Lo salutiamo mentre indossa felice la maglia della società di calcio che ha aiutato a crescere in Perù, mentre ci lascia come ricordo un libro pieno di foto che attestano quanto lui abbia profondamente sostenuto lo sport nelle missioni dove ha vissuto, e noi non possiamo che capire il sorriso che gli illumina il viso quando ci spiega che “Sì, lo sport ha funzionato, sempre”. 


 

 

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